Abbiamo constatato come – da un anno a questa parte – i condizionamenti (più o meno rilevanti in base ai settori) dell’emergenza sanitaria abbiano portato per moltissime imprese e per il management la necessità di innovare rapidamente processi di servizio e/o di produzione.
Spesso abbiamo scoperto come il nesso tra “imprenditorialità” e “innovazione” non sia per nulla scontato. Anzi. Abbiamo scoperto che fare innovazione vera, quella che può comportare una rivisitazione organizzativa e produttiva importante, non è facile, né agevole, né può essere elevata a categoria onnicomprensiva. Per essere capaci di innovare, infatti, il management deve creare una struttura favorevole all’imprenditorialità come competenza diffusa, alla responsabilità individuale, al senso di appartenenza, all’incentivazione di comportamenti orientati al ripensamento di processi consolidati. E tutto questo, non potendo ignorare che è faticosa un’impostazione di questo tipo, perché il business esistente richiede tempo, impegno, regole, procedure. Fattori essenziali, senza i quali sarebbe impensabile organizzare e produrre alcunché.
Le grandi imprese e le multinazionali da molto tempo hanno approcciato il tema dell’innovazione utilizzando soprattutto i project manager: figure professionali altamente specializzate nella gestione di progetti, a cui viene affidata una business unit e la facoltà di mobilitare tutte le competenze interne necessarie: ricerca, produzione, finanza, marketing, risorse umane. Nelle grandi imprese infatti le competenze sono ripartite tra più persone, che sovente le posseggono ad un livello alto, e il lavoro principale sta nel dirigerle e orientarle verso un obiettivo comune.
Molto diverso è il quadro per le piccole e medie imprese, nelle quali le competenze e le responsabilità non possono che essere concentrate sul titolare e sui suoi diretti collaboratori. Se è vero quanto sostenuto da Peter Drucker, ovvero che “un business esistente innova là dove possiede una competenza, sia essa conoscenza del mercato o conoscenza della tecnologia” , se è vero quindi che esiste un legame stretto tra innovazione e competenza, allora non potrà che essere l’incremento della conoscenza e la formazione continua il modo più efficace per rinsaldare quel legame.
Perché interrogare il libro di Munari? Per soffermarci innanzitutto su questa sua affermazione:
“Il prodotto della fantasia, come quello della creatività e della invenzione, nasce da relazioni che il pensiero fa con ciò che conosce. E’ evidente che non può far relazione tra ciò che non conosce, e nemmeno tra ciò che conosce e ciò che non conosce” .
“Il problema basilare quindi, per lo sviluppo della fantasia, è l’aumento della conoscenza, per permettere un maggior numero di relazioni possibili tra un maggior numero di dati” .
Sono molti i modi, descritti da Munari nel libro, con cui si può usare la fantasia. Uno in particolare, apparentemente il più semplice, può tornare utile proprio a chi, imprenditore o manager, si trovi ad aver a che fare con l’innovazione. Si tratta del “metodo Arcimboldi”. L’artista milanese Giuseppe Arcimboldi, vissuto nel XVI secolo, è noto soprattutto per le “Teste Composte”, ritratti burleschi eseguiti combinando tra loro oggetti o elementi dello stesso genere (prodotti ortofrutticoli, pesci, uccelli, libri, ecc.) collegati metaforicamente al soggetto rappresentato. Ogni oggetto perde il suo significato per assumerne uno diverso grazie alla relazione visiva con il quale viene messo con gli altri.
“non è rubando il pennello a Raffaello che si può diventare un grande pittore” .
Certamente è necessario conoscere i colori e le modalità con le quali stenderli sulla tela. Non si può prescindere dalla capacità tecnica, ma è lo “sguardo” di Raffaello sul mondo a fare di lui un grande artista. Allo stesso modo, la capacità di guardare alla realtà adottando punti di vista diversi, l’allargamento del proprio sapere, studiando e formandosi, una mente libera da preconcetti, la disponibilità a cambiare opinione se questa non trova conferme, tutto questo fa parte del background di una persona creativa e capace di innovare.
Tutto questo per dire che la creatività e l’innovazione non sono riducibili né a “doni innati”, né, all’opposto, a tecnicalità da assemblare e ricomporre, perché prima di tutto sono costituiti dall’allenamento al cambiamnto dello sguardo, nutrito al tempo stesso da curiosità, orientamento alla conoscenza e capacità di mettersi in discussione.